Per il RomaFictionFest, TV Sorrisi e Canzoni ha indetto un concorso per selezionare la giuria popolare che avrebbe dovuto giudicare le serie presentate. Ho partecipato a questo concorso, completando un racconto scritto da Carlo Lucarelli (che qua sotto è riportato in rosso, mentre la mia parte compare in nero) e la mia conclusione è piaciuta! Queste 500 battute (non vi dico la fatica per rientrare nei termini...) mi hanno permesso di essere scelta tra i 45 giurati e sono state addirittura pubblicate sul TV Sorrisi e Canzoni della settimana dal 2 al 7 luglio!
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Sì, era l'uomo del bar. Quello magro, nervoso, con un occhio un po' più chiaro dell'altro. Lo ricordava bene, era stato appoggiato al bancone fino all'ora di chiusura, e l'aveva guardata sempre, anche quando credeva che se ne accorgesse, impegnata a fare i cocktail. Poi lei aveva chiuso ed era tornata a casa, e se n'era dimenticata, finchè non si era affacciata alla finestra, quella che dava sulla strada, e l'aveva visto.
L'uomo del bar.
Quello con l'occhiu un po' più chiaro.
Stava là sotto, appoggiato a un lampione e non faceva niente, non guardava in su, non guardava da nessuna parte.
Com'era arrivato fin lì? L'aveva seguita? La conosceva? Chi era?
Pensò che forse era un caso, ma siccome abitava da sola, e quello lì, al bar, le era sembrato parecchio strano strano, e adesso stava là sotto, insomma sarà stato anche un caso, ma prese il telefono e chiamò la polizia.
La volante arrivò dieci minuti dopo.
Un agente scese e chiese i documenti all'uomo, che glieli fece vedere.
L'agente li scrutò con attenzione, poi portò una mano alla visiera in un saluto e se ne andò con tutta la volante.
Fu allora che l'uomo alzò la testa e la guardò.
Come al bar.
Poi si mosse, attraversò la strada ed entrò nel suo palazzo...
Mi ha vista, pensò, il cuore in gola.
Si precipitò alla porta, schiacciò l'orecchio sul metallo gelido: niente. Sospirò.
E vide la busta gialla scivolare sotto la fessura.
La raccolse, conteneva una foto. C'era lei, sulla foto. Ma non era lei. La donna le somigliava come una goccia d'acqua.
Girò il chiavistello, scrutò fuori, incontrò l'occhio più chiaro dell'uomo del bar. Lui le sbattè in faccia un distintivo: "Mi serve il tuo aiuto".
Tornò a guardare la foto: era uguale a lei.
Decise di seguirlo.
«Nero su bianco: pensieri, parole e racconti di una aspirante scrittrice.»
Si dice Internet sia ormai una vetrina. Io ci credo.
In questo blog troverete alcuni dei miei scritti: schizzi e rappresentazioni di personaggi; racconti fantasy, crime, commedie romantiche o storie per ragazzi; racconti brevi completi o semplicemente incipit di storie più lunghe.
Le porte del mio mondo di fantasia si schiudono per tutti coloro che vorranno anche solo sbirciare cosa c'è al di là.
mercoledì 11 luglio 2007
mercoledì 20 giugno 2007
ISABELLA
Ecco un raccontino fresco fresco che ho scritto stamattina. Si tratta di un "compito" per una serie tv che stiamo sviluppando per Rai1 (come esercitazione, si intende!).
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Non ho mai detto “ti amo” a qualcuno. O meglio, l’ho detto. È stato giusto ieri, e vorrei non averlo mai fatto. È stato orribile.
Non che io sia una romantica, non sono per niente il tipo da rose e violini anzi, la mia idea di felicità perfetta è un cheesburger e una porzione di patatine fritte. Adoro la mia libertà, e il pensiero che un giorno potrei prendere e partire per l’America, quindi potete capire benissimo quanto dire “ti amo” a qualcuno sia per me una cosa estremamente seria: una specie di contratto sentimentale senza scadenza.
Non ero preparata a dirlo, ieri sera. Semplicemente mi è scappato di bocca. Devo aver avuto un’aria strana quando l’ho detto, perché Cristian si è fermato con la forchetta a mezz’aria e mi ha squadrato come se mi vedesse per la prima volta in vita sua. È stato una specie di flusso di coscienza: “Non ho molta voglia di andare alla festa stasera, amore”. Amore? Amore?? Come ho potuto scambiare “Cristian” con “amore”? Neanche avesse un nome difficile da ricordare! Però nel momento stesso in cui l’ho chiamato così mi sono resa conto della verità, e cioè che lo amo davvero. Vedergli quell’espressione sconvolta stampata in faccia deve avermi spinto a farfugliare qualche giustificazione per il nomignolo incriminato, qualcosa tipo: “Ecco io… non è che volessi dire… in effetti il punto è… non so, è che io ti amo”. E a quel punto è piombato il gelo. Cristian continuava a guardarmi con gli occhi spiritati: in quel preciso istante ho realizzato quello che avevo appena fatto. Oddio, gli ho DAVVERO detto che lo amo!
Una sorta di pace mi ha invasa nel giro di un secondo, non avevo fatto niente di male dopo tutto, gli avevo semplicemente detto quello che provavo per lui. In una coppia è normale no? Le coppie vere se lo dicono, e sembrano felici quando se lo dicono. Allora perché Cristian se ne stava lì con l’aria di chi preferirebbe essere su un altro continente, meglio ancora morto, piuttosto che aver sentito quello che ha sentito?
Poi una terribile supposizione: e se stesse cercando il modo di dirmi che lui non mi ama senza ferirmi? Così gli ho domandato: “Beh? Tu non hai niente da dirmi?”.
Lui continuava a non muovere nemmeno un muscolo. “Io ti dico che ti amo e tu non mi rispondi niente??” cominciavo ad essere furiosa.
Finalmente Cristian si è risvegliato dal suo sonno, ha fatto un patetico tentativo di cambiare discorso: “Dai Isa che stasera ci divertiamo alla festa, passo da te per le sette ok?” Ha fatto finta di non aver sentito, per di più evadendo le mie domande e parlando di stupide feste! Era troppo, non potevo vederlo un secondo di più. Gli ho detto che, per quanto mi riguardava, poteva passare la sua ultima serata a Ferrara da solo anzi, meglio, con quegli imbecilli dei suoi amici. Poi me ne sono andata.
Quando sono arrivata a casa mi sono buttata sul letto. Pensate che io abbia pianto? Non mi conoscete bene. Ero piena di rabbia e per calmarmi ho ridotto in pezzettini minuscoli tutti gli opuscoli di take away che stavo collezionando da un po’. Pessima mossa, ma mi ha schiarito la mente. Cristian non mi amava, e su questo non avevo praticamente dubbi. Però non gli avevo neanche lasciato il tempo di spiegarmi… Si dice che chi ama è comprensivo, e io lo amo. Non volevo che ci lasciassimo in quel modo orribile, quindi ho deciso che avrei provato a parlargli: magari saremmo riusciti a sistemare le cose. Chi ha detto che non si sarebbe potuto innamorare di me con il tempo, dopo tutto?
Allora sono andata alla festa, ieri sera. Lui c’era, ed evidentemente non mi aspettava. Era altrettanto evidente che non mi amava, e che neanche tra diecimila anni si sarebbe potuto innamorare di me, dato che se ne stava lì, praticamente appiccicato ad una biondona, con tutti i suoi amici attorno che fischiavano e ululavano.
È che non ho mai fatto una classifica dei momenti più umilianti della mia vita, altrimenti questo l’avrebbe rapidamente scalata e si sarebbe piazzato al primo posto. Ammetto che lì per lì avrei voluto correre via, o sprofondare al centro della terra, o prendere uno per uno i suoi amici e schiaffeggiarli, ma non ho fatto niente di tutto ciò. Mi sono rinchiusa in bagno per una ventina di minuti e ho cercato di raccogliere tutto il sangue freddo di cui disponevo, poi sono uscita a cercare Cristian. Con la bionda aveva già finito a quanto pare, perché se ne stava tutto solo in un angolo con una birra mezza vuota in mano. Mi sono avvicinata a lui, gli ho sorriso e gli ho detto semplicemente: “Allora… fai buon viaggio e non stancarti troppo a Milano, con tutto quel via vai…” di donne, ho aggiunto mentalmente.
“Quando torno ci vediamo?” ha domandato con voce lamentosa. Evidentemente aveva una sbronza triste.“Un mese è lungo Cri” gli ho risposto, impassibile, poi ho girato sui tacchi e me ne sono andata. Non so come ho fatto a mantenere in controllo sulla mia faccia, perché dentro di me volevo scoppiare a piangere e urlare.
Non che io sia una romantica, non sono per niente il tipo da rose e violini anzi, la mia idea di felicità perfetta è un cheesburger e una porzione di patatine fritte. Adoro la mia libertà, e il pensiero che un giorno potrei prendere e partire per l’America, quindi potete capire benissimo quanto dire “ti amo” a qualcuno sia per me una cosa estremamente seria: una specie di contratto sentimentale senza scadenza.
Non ero preparata a dirlo, ieri sera. Semplicemente mi è scappato di bocca. Devo aver avuto un’aria strana quando l’ho detto, perché Cristian si è fermato con la forchetta a mezz’aria e mi ha squadrato come se mi vedesse per la prima volta in vita sua. È stato una specie di flusso di coscienza: “Non ho molta voglia di andare alla festa stasera, amore”. Amore? Amore?? Come ho potuto scambiare “Cristian” con “amore”? Neanche avesse un nome difficile da ricordare! Però nel momento stesso in cui l’ho chiamato così mi sono resa conto della verità, e cioè che lo amo davvero. Vedergli quell’espressione sconvolta stampata in faccia deve avermi spinto a farfugliare qualche giustificazione per il nomignolo incriminato, qualcosa tipo: “Ecco io… non è che volessi dire… in effetti il punto è… non so, è che io ti amo”. E a quel punto è piombato il gelo. Cristian continuava a guardarmi con gli occhi spiritati: in quel preciso istante ho realizzato quello che avevo appena fatto. Oddio, gli ho DAVVERO detto che lo amo!
Una sorta di pace mi ha invasa nel giro di un secondo, non avevo fatto niente di male dopo tutto, gli avevo semplicemente detto quello che provavo per lui. In una coppia è normale no? Le coppie vere se lo dicono, e sembrano felici quando se lo dicono. Allora perché Cristian se ne stava lì con l’aria di chi preferirebbe essere su un altro continente, meglio ancora morto, piuttosto che aver sentito quello che ha sentito?
Poi una terribile supposizione: e se stesse cercando il modo di dirmi che lui non mi ama senza ferirmi? Così gli ho domandato: “Beh? Tu non hai niente da dirmi?”.
Lui continuava a non muovere nemmeno un muscolo. “Io ti dico che ti amo e tu non mi rispondi niente??” cominciavo ad essere furiosa.
Finalmente Cristian si è risvegliato dal suo sonno, ha fatto un patetico tentativo di cambiare discorso: “Dai Isa che stasera ci divertiamo alla festa, passo da te per le sette ok?” Ha fatto finta di non aver sentito, per di più evadendo le mie domande e parlando di stupide feste! Era troppo, non potevo vederlo un secondo di più. Gli ho detto che, per quanto mi riguardava, poteva passare la sua ultima serata a Ferrara da solo anzi, meglio, con quegli imbecilli dei suoi amici. Poi me ne sono andata.
Quando sono arrivata a casa mi sono buttata sul letto. Pensate che io abbia pianto? Non mi conoscete bene. Ero piena di rabbia e per calmarmi ho ridotto in pezzettini minuscoli tutti gli opuscoli di take away che stavo collezionando da un po’. Pessima mossa, ma mi ha schiarito la mente. Cristian non mi amava, e su questo non avevo praticamente dubbi. Però non gli avevo neanche lasciato il tempo di spiegarmi… Si dice che chi ama è comprensivo, e io lo amo. Non volevo che ci lasciassimo in quel modo orribile, quindi ho deciso che avrei provato a parlargli: magari saremmo riusciti a sistemare le cose. Chi ha detto che non si sarebbe potuto innamorare di me con il tempo, dopo tutto?
Allora sono andata alla festa, ieri sera. Lui c’era, ed evidentemente non mi aspettava. Era altrettanto evidente che non mi amava, e che neanche tra diecimila anni si sarebbe potuto innamorare di me, dato che se ne stava lì, praticamente appiccicato ad una biondona, con tutti i suoi amici attorno che fischiavano e ululavano.
È che non ho mai fatto una classifica dei momenti più umilianti della mia vita, altrimenti questo l’avrebbe rapidamente scalata e si sarebbe piazzato al primo posto. Ammetto che lì per lì avrei voluto correre via, o sprofondare al centro della terra, o prendere uno per uno i suoi amici e schiaffeggiarli, ma non ho fatto niente di tutto ciò. Mi sono rinchiusa in bagno per una ventina di minuti e ho cercato di raccogliere tutto il sangue freddo di cui disponevo, poi sono uscita a cercare Cristian. Con la bionda aveva già finito a quanto pare, perché se ne stava tutto solo in un angolo con una birra mezza vuota in mano. Mi sono avvicinata a lui, gli ho sorriso e gli ho detto semplicemente: “Allora… fai buon viaggio e non stancarti troppo a Milano, con tutto quel via vai…” di donne, ho aggiunto mentalmente.
“Quando torno ci vediamo?” ha domandato con voce lamentosa. Evidentemente aveva una sbronza triste.“Un mese è lungo Cri” gli ho risposto, impassibile, poi ho girato sui tacchi e me ne sono andata. Non so come ho fatto a mantenere in controllo sulla mia faccia, perché dentro di me volevo scoppiare a piangere e urlare.
lunedì 21 maggio 2007
LE REGOLE DELL'AMORE
Quello che segue è l'inizio di una commedia rosa che si trova attualmente in fase di preparazione. Sono proprio le prime parole del libro.
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Non che fosse orgoglioso del proprio passato.
Aveva avuto troppe donne per ricordare il volto di ognuna di loro. Però questo non credeva di meritarlo.Non credeva proprio di meritare questo.
Daniel se ne stava lì, impalato, nel bel mezzo della chiesa addobbata, in un trionfo di roselline gialle e bianche, e cascate di mimose.
Le rose gialle portano male, ricordò confusamente di aver pensato, quando lui e Ambra erano andati a scegliere i fiori. E poi, a chi piacciono quelle stupide palline di polline che ti entra nel naso e ti fa starnutire?
Le rose gialle portano male, ricordò confusamente di aver pensato, quando lui e Ambra erano andati a scegliere i fiori. E poi, a chi piacciono quelle stupide palline di polline che ti entra nel naso e ti fa starnutire?
Eppure, le mimose gli erano piaciute. Gli erano perfino sembrate simpatiche quella mattina, mentre entrava in chiesa e osservava con un brivido di soddisfazione e di panico le facce colme di aspettativa degli invitati già presenti.
Stava una favola, con quell'abito scuro e la cravatta di seta grigia, i capelli corti sempre un po' spettinati come piaceva a lui, e gli occhiali rettangolari dalla montatura leggera, che gli davano un'aria furbetta e irresistibile. Se non fosse stato per quella piccola ruga di preoccupazione sulla fronte, che si faceva più profonda man mano che trascorrevano i minuti.
Aveva camminato avanti e indietro lungo la navata centrale della chiesa, ormai conosceva quasi il pavimento a memoria. Si era piazzato accanto alla porta e aveva strizzato gli occhi per ripararli dal sole primaverile nel tentativo di guardare il più lontano possibile, in caso fosse riuscito a scorgere una macchina in lontananza. Poi era tornato accanto all'altare e, sospirando, si era rassegnato a mettersi seduto.
In quel preciso momento, mentre Daniel cercava di rassegnarsi a pazientare, una macchina blu lucidissima e tutta infiocchettata si era fermata sul piazzale. Ne era scesa Melissa, l'abito lungo di un cremisi che faceva risaltare i suoi occhi verdi e i capelli color rame, che si era precipitata fuori dall'auto e si era lanciata in una specie di corsa, per quanto i tacchi da dieci centimetri glielo permettessero. Melissa aveva raggiunto in tutta fretta suo fratello vicino all'altare. Daniel si era alzato e aveva accostato l'orecchio al volto di Melissa, che stava ripetendo come una cantilena:
"Non viene più! Ambra non viene più!"
Daniel fece finta di non capire, o di non sentire. Si guardò attorno spaesato, circondato di rose gialle e bianche, e di mimose. Tra la folla ci fu un mormorio generale, qualche colpo di tosse. Alcuni scuotevano la testa, altri facevano spallucce.
Com'era possibile? Decine di donne avrebbero fatto carte false per uscire con lui, almeno cinque o sei gli avevano lasciato le chiavi di casa anche se lui non le aveva mai chieste. Tre avevano cercato di piazzarsi nel suo appartamento in pianta stabile. Ma una, l'unica che lui aveva scelto... l'aveva piantato. E non in maniera rapida e indolore. L'aveva lasciato. Davanti all'altare. Il giorno del loro matrimonio.
Questo, Daniel ne era convinto, proprio non lo meritava.
martedì 1 maggio 2007
L'ESECUTORE DEGLI ORDINI
Far vivere dei personaggi è qualcosa che adoro: persarli, vederli con gli occhi della mente, sentire che sono veri.
Diego Ventura è un personaggio che ho creato per un esercizio del Centro sperimentale di cinematografia.
Questo è l'inizio della sua avventura...
Questo è l'inizio della sua avventura...
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"Il piano è fin troppo semplice” pensa Diego Ventura quando Antonio Moreno lo convoca per affidargli un nuovo lavoretto. Gli “altri” si occuperanno di tenere a bada gli Africani, durante l’incursione al ristorante somalo, mentre Diego dovrà mirare dritto alla testa del capo di quella banda male assortita, un tale dall’aria sudicia che si fa chiamare Aniello. Se questo è davvero il suo nome, Diego non lo sa, e nemmeno gli interessa. Antonio gli assicura che Aniello ci sarà, in quel ristorante, e Diego non ha bisogno di sapere altro. Il gruppo di Belmonte è abbastanza leggero, saranno in quattro lui compreso, ma la novità è che il figlio di Moreno sarà accompagnato da un vecchio affiliato e da un nuovo arrivato, un certo Valerio. Appena vede Valerio, nella testa di Diego scatta una molla: il suo istinto e la sua prima impressione di una persona o di una situazione lo tradiscono raramente, e Diego – senza sapere neanche lui da che cosa gli derivi quella sensazione – sa che quel ragazzo è dotato di un carisma non indifferente. Ma non c’è tempo per pensare, bisogna agire. L’incursione non va esattamente come Antonio Moreno aveva predetto, c’è una mischia, molti spari di pistola, tavoli divelti e utilizzati come protezioni. Aniello non c’è, dannazione. Diego fredda un certo numero di avversari, la sua mira è infallibile, e mentre scarica la sua pistola coglie con la coda dell’occhio un movimento: Valerio si prende una pallottola di striscio per buttare a terra Giovanni, che si sta comportando da pazzo, e salvargli la vita. La maggior parte degli Africani sono in una pozza di sangue, ma la cosa più saggia che il gruppo di Belmonte può fare è ritirarsi. Diego afferra il braccio ancora sano di Valerio, gli fa segno di venire fuori da quell’inferno di colpi.
A Diego non piace lavorare così, le informazioni sbagliate fanno perdere tempo e, spesso, la vita. Eppure a Moreno non importa di averli quasi mandati al macello. Dopo un po’ lo convoca di nuovo. “Questa volta è sicuro” gli dice senza aggiungere altro: nel loro mondo non esistono scuse per le istruzioni sbagliate, tanto meno da parte di Antonio. Altra azione contro gli Africani, altro giro, altro regalo. Valerio è guarito dalla ferita superficiale, partecipa anche lui, insieme a Giovanni e a un altro. Ufficialmente, il compito di Diego è sempre lo stesso: fare fuori Aniello. Concretamente, questa missione è un’altra roulette russa, e Diego ne ha anche un po’ abbastanza. Questa volta succede qualcosa di imprevedibile però, gli spari provengono dagli Africani, ma anche dalle proprie fila. Valerio spara a Giovanni Moreno. Diego ha visto tutto perfettamente. In un secondo mille domande folgorano la sua mente, ma lui ha già capito chi è veramente Valerio. Valerio è il nuovo leader. Diego si rende conto che l’altro di Belmonte ha visto tutto, mira al suo petto, un centro perfetto. Diego e Valerio si allontanano da lì, tra loro si è appena creata una tacita alleanza.
A Diego non piace lavorare così, le informazioni sbagliate fanno perdere tempo e, spesso, la vita. Eppure a Moreno non importa di averli quasi mandati al macello. Dopo un po’ lo convoca di nuovo. “Questa volta è sicuro” gli dice senza aggiungere altro: nel loro mondo non esistono scuse per le istruzioni sbagliate, tanto meno da parte di Antonio. Altra azione contro gli Africani, altro giro, altro regalo. Valerio è guarito dalla ferita superficiale, partecipa anche lui, insieme a Giovanni e a un altro. Ufficialmente, il compito di Diego è sempre lo stesso: fare fuori Aniello. Concretamente, questa missione è un’altra roulette russa, e Diego ne ha anche un po’ abbastanza. Questa volta succede qualcosa di imprevedibile però, gli spari provengono dagli Africani, ma anche dalle proprie fila. Valerio spara a Giovanni Moreno. Diego ha visto tutto perfettamente. In un secondo mille domande folgorano la sua mente, ma lui ha già capito chi è veramente Valerio. Valerio è il nuovo leader. Diego si rende conto che l’altro di Belmonte ha visto tutto, mira al suo petto, un centro perfetto. Diego e Valerio si allontanano da lì, tra loro si è appena creata una tacita alleanza.
giovedì 19 aprile 2007
LA CHIAVE DEI MONDI
Scritto per il concorso "La fiaba di Selvino" alla fine del 2006.
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La faccia rosea e tonda del ragazzino della terza classe era appesa dappertutto. Non c’era un solo modo di sfuggire a quella fotografia con cui qualcuno aveva tappezzato tutti i muri della città di Ikon. «Occhialetti rotondi, camiciola a quadretti: è decisamente il ritratto del peggior incubo di un ragazzo» si disse Alex con orrore, passando accanto all’ennesima foto – questa era attaccata a un lampione – mentre andava a scuola. Sotto quella faccia si leggeva una grande scritta rossa: RICOMPENSA PER CHI AIUTERA’ A RITROVARE TOMMY. Alex non poteva fare a meno di pensare che sarebbe stata più adatta per un gatto smarrito piuttosto che per un ragazzo scomparso. Gli faceva un po’ pena quel bambino di terza elementare: certo, magari Tommy era un impiastro e un so-tutto-io, ma Alex non avrebbe augurato a nessuno una fotografia del genere. Per fortuna lui non aveva problemi di questo tipo: nelle foto veniva sempre bene, con i suoi capelli biondi e gli occhi azzurri; non aveva mai preso più di buono in matematica ed era un campione a calcio. Per di più era in quinta elementare. Era uno forte, insomma.
Quella mattina spedirono tutti gli studenti nell’aula che funzionava da teatro: riunione. Alex si accasciò su una sedia libera, nascondendosi dietro le teste di quelli che gli stavano davanti. Mentre la Direttrice parlava, lui e altri tre amici incominciarono ad organizzare un complicatissimo girone per il torneo di calcetto di quel pomeriggio.
«E così, da quest’oggi, nessuno potrà circolare per le strade di Ikon, dopo la scuola.» disse la Direttrice.
Alex si fermò con la bocca spalancata proprio nel bel mezzo della frase «allora ci vediamo al campo alle quattr…».
Duecento paia di occhi si fissarono sulla figura spigolosa della Direttrice con uno sguardo da non-puoi-aver-detto-quello-che-hai-appena-detto. «Finché Tommy non verrà ritrovato sano e salvo nessuno sarà al sicuro qui a Ikon. Sono certa che capirete la necessità di rispettare questa regola e che ne sarete entusiasti» proseguì lei. L’unico pensiero che Alex riuscì a formulare, in quel momento, fu che il ghigno malefico sul volto della direttrice le dava un’aria sadica.
Alex non si sentiva così di cattivo umore dal giorno in cui aveva accidentalmente distrutto la sua console per videogiochi, la DreamZ 3, lanciandovi contro il joystick. in un momento di tensione. Quella volta però tutto si era risolto per il meglio: i genitori l’avevano consolato regalandogli la DreamZ 4, un gioiello fresco fresco di fabbrica. Questa volta invece non c’era soluzione. L’umore gli era sceso sotto la suola delle scarpe. Ogni speranza di vincere il torneo di calcetto era in fumo. Mentre si dirigeva tristemente verso casa, Alex si fermò davanti ad una delle fotografie appese ad una fermata dell’autobus: «È tutta colpa tua, Tommy!» gli gridò, ma lui rimase immobile nella sua foto, con il solito sorriso stampato sul viso rotondo.
L’unico modo per non pensare al suo dramma era la DreamZ 4: Alex si piazzò sul divano e fece partire Argentine, il videogioco che preferiva. Si immerse nel mondo fantastico di cavalieri dalle armature lucenti e di mostri orribili. Aveva quasi finito l’ultimo livello, doveva solo sconfiggere il Padrone del Buio. Il momento era delicato: per fortuna si stava preparando a quel confronto da mesi (e aveva anche dato una sbirciatina ad un manuale di trucchi che suggeriva qualche via d’uscita per i casi disperati!). Alex giocava da un paio d’ore quando incominciò a rendersi conto che qualcosa non andava. Non riusciva a sferrare i colpi che desiderava e che di solito gli riuscivano a meraviglia. Per di più era spuntata fuori dal nulla una nuova missione da superare per finire il videogioco: doveva scontrarsi con un tizio di nome Hannibal. Ma sul libretto di istruzioni di Argentine questo Hannibal non c’era da nessuna parte! E dov’era finito il Padrone del Buio? Incominciò ad innervosirsi: prese a schiacciare delle sequenze di tasti a caso sul joystick, cercando di capire che cosa non andava. «Qui sono io il più forte!» sfidò la console ribelle. All’improvviso, un lampo di luce azzurrognola si sprigionò dalla tv. Alex tentò di vederci qualcosa in mezzo a tutto quell’azzurro, ma si accorse di essere molto, molto stanco. Aveva così tanto sonno che la testa gli ciondolava sul petto. Ho giocato troppo oggi, fu il suo ultimo pensiero, prima di scivolare a terra.
«Io ti conosco!» disse una voce che rimbombò nell’orecchio di Alex come un tuono. O forse era solo colpa della batteria di tamburi che gli martellava nella testa. Aprì un occhio. Che cosa si trovò a dieci centimetri dal naso, se non la faccia occhialuta, rosea e rotonda di… Tommy?? Alex fece un balzo indietro. Quando in seguito ripensò a quel momento non riuscì mai a spiegarsi come ci era riuscito, dato che era ancora sdraiato. Squadrò Tommy con furia: «Si può sapere dove diavolo ti eri cacciato??» Se si fosse guardato attorno, Alex si sarebbe accorto di trovarsi al riparo, sotto un cespuglio dagli strani fiori fosforescenti. Per dirla tutta, anche i colori del paesaggio erano strani. Sembravano dipinti con i pastelli! Però non si guardò attorno. Notò invece i vestiti ridicoli di Tommy, che pareva un giullare con una piccola arpa in mano. Alex aprì la bocca per commentare che quegli abiti erano praticamente perfetti per uno con una foto come la sua, ma Tommy si affrettò a cacciargli la mano sulla bocca. Ciò che ne venne fuori fu, più che altro, un gorgoglio simile a quello di un pesce in una boccia. «Shhhh!» gli ordinò Tommy con aria autoritaria, ma con gli occhi da cerbiatto smarrito. Alex lo osservò stralunato poi finalmente guardò il paesaggio. Che razza di posto era quello?? Eppure gli sembrava familiare. Ma no, non poteva certo essere…
«Benvenuto ad Argentine» dichiarò Tommy con aria depressa. Tommy non sapeva come si faceva ad entrare in quel mondo, anche lui ci era entrato per caso mentre giocava con la sua DreamZ, ma aveva scoperto che l’unico modo per tornare a casa era finire il videogioco. Argentine era un luogo pericoloso e, cosa ancora peggiore, un certo Hannibal stava manipolando le regole del mondo. Nessuno sapeva chi fosse realmente: aveva sconfitto il Padrone del Buio e ora viveva nelle ombre del Pozzo Profondo. Alex faceva fatica a seguire le spiegazioni di Tommy, che parlava così in fretta da sembrare un fiume in piena, o qualcuno che non parlava con anima viva da settimane. Il più piccolo cercò di far capire ad Alex che ora facevano parte del videogioco e che, se volevano uscirne interi, dovevano giocare. «Io sono un bardo» gli disse, mostrandogli la piccola arpa. «Tu che cosa sarai?». Di lì a poco Alex
indossava una lucidissima armatura da cavaliere, e andava in giro roteando una spada. Non capì quanto fosse reale la situazione fino a quando la lama gli sfuggì di mano procurandogli un gran bel taglio sul palmo.
«Si può morire qui?» domandò Alex, profondamente scosso. Tommy non gli rispose: non ci voleva nemmeno pensare, ma sapeva che era così. Alex incominciò a considerare l’avventura da una prospettiva diversa: il gioco gli piaceva, anzi, lo adorava. Però rimanere lì per sempre non era in cima alla sua lista di priorità. Tanto meno morire. C’era un torneo di calcetto che lo aspettava fuori da Argentine, se fosse riuscito a riportare indietro quel guastafeste di Tommy. Decise che uscire da quel mondo era la cosa migliore da fare. I due incominciarono a camminare lungo i sentieri pastello di Argentine, incontrando di tanto in tanto qualcuno da cui Tommy otteneva delle informazioni. Era molto bravo in quello. Alex invece scoprì che combattere non era affatto una passeggiata. La spada era troppo pesante, e gli avversari erano spietati. Affrontarono branchi di pipistrelli mannari e volpi tigrate, le più malefiche creature di Argentine. Capirono che erano quasi al termine del viaggio: si sa, i mostri peggiori sono sempre alla fine. Raggiunsero il Pozzo Profondo: era quella l’unica via di uscita, ma era anche la dimora di Hannibal. Il timore di lasciarci la pelle quasi non li lasciava camminare. In un attimo Alex e Tommy furono circondati dalle ombre, e seppero che lui stava arrivando. Nessuno dei due aveva idea di come sconfiggerlo ma, soprattutto, nessuno dei due aveva nemmeno un’idea. La loro mente era immersa in una fitta nebbia. Il coraggio e l’intraprendenza di Tommy si sciolsero come neve al sole; si rannicchiò in un angolo e cercò di sembrare invisibile. Nelle ombre, i passi di Hannibal erano sempre più vicini; Alex e Tommy potevano sentire la sua risata maligna.
«Come posso sconfiggere un nemico che non riesco a vedere?» si domandò Alex, freneticamente. Nel fondo della sua memoria si accese una minuscola lampadina di speranza. Ma sì! Il manuale dei trucchi! «Anche se ti trovi con le spalle al muro, non perdere la speranza!» esclamò Alex. Il rumore di una lama che veniva sfoderata non favoriva certo la concentrazione, ma Alex fu un fulmine ad eseguire la sequenza dei gesti indicata nel manuale. Hannibal lanciò un terribile ruggito. Si era reso conto che qualcuno aveva aperto una porta spazio-dimensionale per sfuggirgli.
«Poco corretto… ma tu non dirlo a nessuno!» gridò Alex a Tommy, mentre correvano a perdifiato verso l’immenso portone che costituiva la fine del livello e la via della salvezza. A Tommy, in verità, non era nemmeno passato per la mente. Un bagliore di luce azzurrata, poi si accorsero di avere sonno, molto sonno.
Di comune accordo, Alex e Tommy decisero di non rivelare nulla della loro avventura. Decisero anche che si sarebbero incontrati ogni giorno per tentare di sconfiggere una volta per tutte Hannibal, stavolta con mezzi legali.
«Niente! È impossibile!» sbuffò Alex, mentre Tommy si grattava la testa, perplesso. Alex incominciò a premere dei tasti a caso, provando combinazioni nuove. All’improvviso una luce azzurra invase lo schermo della tv e una scritta incominciò a lampeggiare: CHIAVE DEI MONDI: ATTIVATA. DESIDERI ENTRARE IN ARGENTINE?
I due rimasero di sasso, e si guardarono senza riuscire a dirsi nemmeno una parola.
mercoledì 18 aprile 2007
HO SOGNATO
Non saprei come definire quello che segue se non "prologo".
L'ho scritto tanti anni fa.
Questa introduzione permetteva di addentrarsi nei sentimenti contrastanti, attrazione e repulsione, di Damon - il protagonista maschile della storia fantasy - nei confronti di una donna misteriosa che gli appare costantemente in sogno.
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Ho sognato…anche stanotte l’ ho sognata.
Sogno e incubo, figura di tenebra ammantata di luce, amara tortura così lieve che sussurra parole alle mie orecchie mentre dormo. Lei è così bella…e così terribile!
I suoi occhi mi perseguitano durante la notte, sono specchi scuri e profondi, e guardandoli io vedo me stesso: ciò che sono stato, ciò che sarò…ciò che sono. Lei vede me, mi scruta, posso sentire il suo tocco delicato come il petalo di una rosa sulla mia anima, mi sfiora e mi accarezza con delicatezza possessiva, mi conosce in ogni minimo particolare. Lei conosce me, ma io non so chi sia. Non so perché mi appaia in sogno durante le mie notti inquiete,non so perché mi osservi, non capisco cosa voglia da me.
Non è un’illusione, io so che lei, da qualche parte di questo mondo, esiste, respira, cammina. Il sogno è troppo reale per essere solo una mia fantasia. Io la vedo. A volte è così vicina che ho l’impressione di poterla toccare: mi basterebbe sollevare la mano, allungare le dita nella sua direzione per raggiungerla, ma ogni volta che la notte lei è con me non oso farlo. Forse perché la temo, forse perché ho paura che un solo movimento, un respiro o un sussurro troppo rumoroso possano farla fuggire lontano. Lei però, quando viene a trovarmi in sogno, rimane sempre, non mi abbandona fino a quando il cielo, invidioso, ostile, sdegnato della sua tenebra, non si tinge di rosa e i primi raggi del sole non si posano sulla terra addormentata riportandola in vita. È in quel momento, quando la sua figura oscura viene rischiarata dall’Aurora, che mi lascia per ritornare nella sua ombra protettiva, abbandonandomi lì, solo e spaventato, come un bambino che nel buio della propria stanza piange per la paura delle forme che, nella notte, sembrano prendere vita ed animarsi.
Io temo la sua tenebra ma lei rifugge la luce, questo l’ ho capito. La luce la colpisce e la ferisce, le fa male. A volte sembra talmente debole! Ma è molto potente, lo sento. Sento il potere scorrere forte lungo il suo corpo, fluire nelle sue vene come un liquido dolce e amaro, inebriante, elettrizzante. In confronto a lei io sono debole, inerme; davanti a lei le mie certezze svaniscono; i suoi occhi di specchio mi mostrano continuamente gli errori che ho compiuto e che mai compirò…incessantemente. E in un istante mi ritrovo a temere per ogni mio gesto, perché lei mi mostra che sarà inevitabilmente sbagliato, che non c’è niente che io possa fare per cambiare il futuro. E mi ritrovo a sperare che se ne vada, che lasci i miei sogni, che non mi sveli quello che sarà… Come può illuminare in questo modo la mia mente, con la conoscenza dei miei futuri fallimenti, quando lei è una figura di tenebra, come? Ma allo stesso tempo la voglio con me..
Non so nemmeno io cosa voglio. Non la conosco. Non l’ ho mai vista. Ma so che è reale almeno quanto lo sono io, anche se non posso dire da dove mi giunga questa consapevolezza: in sogno vedo solo i suoi occhi nei quali mi rifletto, la sua figura che si staglia nell’oscurità, così netta come una sagoma ritagliata nel cartone. Nient’altro. Ma so che è bella, molto bella.
Non conosco il suo nome, sempre che ne abbia uno. Eppure sono certo di una cosa: non potrò mai dimenticare i suoi occhi, profondi come l’oceano, obliqui, misteriosi.
Riconoscerei quegli occhi tra mille.
È l’unica certezza che mi è rimasta, ormai.
Sogno e incubo, figura di tenebra ammantata di luce, amara tortura così lieve che sussurra parole alle mie orecchie mentre dormo. Lei è così bella…e così terribile!
I suoi occhi mi perseguitano durante la notte, sono specchi scuri e profondi, e guardandoli io vedo me stesso: ciò che sono stato, ciò che sarò…ciò che sono. Lei vede me, mi scruta, posso sentire il suo tocco delicato come il petalo di una rosa sulla mia anima, mi sfiora e mi accarezza con delicatezza possessiva, mi conosce in ogni minimo particolare. Lei conosce me, ma io non so chi sia. Non so perché mi appaia in sogno durante le mie notti inquiete,non so perché mi osservi, non capisco cosa voglia da me.
Non è un’illusione, io so che lei, da qualche parte di questo mondo, esiste, respira, cammina. Il sogno è troppo reale per essere solo una mia fantasia. Io la vedo. A volte è così vicina che ho l’impressione di poterla toccare: mi basterebbe sollevare la mano, allungare le dita nella sua direzione per raggiungerla, ma ogni volta che la notte lei è con me non oso farlo. Forse perché la temo, forse perché ho paura che un solo movimento, un respiro o un sussurro troppo rumoroso possano farla fuggire lontano. Lei però, quando viene a trovarmi in sogno, rimane sempre, non mi abbandona fino a quando il cielo, invidioso, ostile, sdegnato della sua tenebra, non si tinge di rosa e i primi raggi del sole non si posano sulla terra addormentata riportandola in vita. È in quel momento, quando la sua figura oscura viene rischiarata dall’Aurora, che mi lascia per ritornare nella sua ombra protettiva, abbandonandomi lì, solo e spaventato, come un bambino che nel buio della propria stanza piange per la paura delle forme che, nella notte, sembrano prendere vita ed animarsi.
Io temo la sua tenebra ma lei rifugge la luce, questo l’ ho capito. La luce la colpisce e la ferisce, le fa male. A volte sembra talmente debole! Ma è molto potente, lo sento. Sento il potere scorrere forte lungo il suo corpo, fluire nelle sue vene come un liquido dolce e amaro, inebriante, elettrizzante. In confronto a lei io sono debole, inerme; davanti a lei le mie certezze svaniscono; i suoi occhi di specchio mi mostrano continuamente gli errori che ho compiuto e che mai compirò…incessantemente. E in un istante mi ritrovo a temere per ogni mio gesto, perché lei mi mostra che sarà inevitabilmente sbagliato, che non c’è niente che io possa fare per cambiare il futuro. E mi ritrovo a sperare che se ne vada, che lasci i miei sogni, che non mi sveli quello che sarà… Come può illuminare in questo modo la mia mente, con la conoscenza dei miei futuri fallimenti, quando lei è una figura di tenebra, come? Ma allo stesso tempo la voglio con me..
Non so nemmeno io cosa voglio. Non la conosco. Non l’ ho mai vista. Ma so che è reale almeno quanto lo sono io, anche se non posso dire da dove mi giunga questa consapevolezza: in sogno vedo solo i suoi occhi nei quali mi rifletto, la sua figura che si staglia nell’oscurità, così netta come una sagoma ritagliata nel cartone. Nient’altro. Ma so che è bella, molto bella.
Non conosco il suo nome, sempre che ne abbia uno. Eppure sono certo di una cosa: non potrò mai dimenticare i suoi occhi, profondi come l’oceano, obliqui, misteriosi.
Riconoscerei quegli occhi tra mille.
È l’unica certezza che mi è rimasta, ormai.
LA BAMBINA CHE GIOCAVA CON LA FIAMMA
Più che un racconto nel vero senso della parola, il racconto di un personaggio. Queste righe si inseriscono nell'ambito di un progetto più ampio: una storia fantasy di cui è protagonista Shailin, che qui vediamo bambina.
Una bellissima bambina dai capelli d'oro e gli occhi di rubino, che ha il dono di manipolare il fuoco.
Sono molto affezionata a questo personaggio.
________________________________
«Ti sei mai sentita sola? Eh, Belle? Così sola, come se ti avessero rinchiusa in una stanza e tu urli e chiami, e piangi… ma nessuno fuori ti sente, perché hanno chiuso anche le porte. E non ci sono finestre. E le pareti della stanza sono di pietra così solida che nessun rumore può passarci attraverso…»
Una piccola luce si accese, una fiammella scaturita da chissà dove nell’oscurità.
Shailin accostò la danzante fiamma a una candela quasi consumata che si trovava sul comodino accanto al suo letto e lo stoppino prese subito fuoco, illuminando quell’angolo della stanza di una luce soffusa e dorata. Tornò quindi a letto, passi leggeri che sfioravano il terreno i suoi, passi da bambina. Con un saltello vi si sistemò sopra, incrociando le gambe e portandole unite al petto per poi circondarle con entrambe le braccia mentre proseguiva nel proprio discorso,intenta:
«Sai Belle, ci sono volte in cui mi sembra di stare in mezzo a tante persone, ma forse parlo una lingua diversa da loro. Perché io parlo e nessuno mi capisce. Non lo so come mai.» Shailin si soffermò un momento, forse per riflettere su ciò che, evidentemente, le capitava spesso. Il visetto assunse una strana, solenne espressione, eppure i suoi occhi color rubino erano profondamente tristi. «Perché non vogliono giocare con me? Sono brutta, Belle? Lo so che è per questo! Hanno paura di me perché sono brutta, gli altri bambini. E io sono sempre sola.»
Per un momento la sua voce parve incrinarsi, e tacque, mentre le labbra cominciarono a tremare come se fosse sull’orlo delle lacrime. Eppure Shailin non pianse questa volta. Dopo tutto, si disse, era una bambina forte, e se gli altri stupidi bambini non volevano giocare con lei a lei non importava. No, non le importava davvero! E poi lei aveva sempre Belle al suo fianco.
La bambina continuò a lottare contro le lacrime ancora per qualche momento in silenzio poi, riacquistato il controllo della propria voce disse con una disarmante semplicità:
«Perché tu mi vuoi bene, Belle, io ne sono sicura. È vero?»
Ma i suoi occhi lucidi non videro risposta alle proprie domande, nemmeno questa volta. Belle, la sua bambola preferita, giaceva sul letto accanto a lei con lo sguardo vacuo rivolto verso il soffitto.
Shailin non sapeva quanti anni prima le avevano regalato quella bambola, forse non le interessava neppure; la cosa importante per lei era che Belle la ascoltava sempre, e questo significava sicuramente che le voleva bene. La bambina si prendeva cura di lei come se fosse la cosa più importante che avesse, e non permetteva a nessun altro oltre a lei di toccarla; passava ore ed ore a parlare con Belle. Monologhi lunghissimi, quasi infiniti, ma per lei questo non aveva importanza, tanto non aveva nessun altro con cui parlare. Nemmeno i suoi genitori sembravano ascoltarla mai.
Quella notte senza rendersene conto, Shailin stava confidando a Belle tutta la sua tristezza. Belle era una delle poche che l’avesse mai vista piangere perché, per quanto fosse una bambina dal carattere piuttosto fragile, aveva una particolarissima forza di volontà, insolita per una ragazzina di cinque anni, e aveva deciso che nessuno avrebbe dovuto sapere che era triste. Tranne Belle, naturalmente.
Shailin sciolse la stretta delle braccia attorno alle gambe e si protese in avanti per prendere Belle, quindi si buttò all’indietro per distendersi sul letto, senza preoccuparsi di ricoprirsi con le lenzuola di seta. Tenendo stretta in un abbraccio la sua bambola, voltò la testa sul cuscino in modo da poter osservare la fiammella della candela che sobbalzava ad ogni suo respiro e per qualche istante si perse nella contemplazione di quella strana danza.
Poi un rumore proveniente dal corridoio la riscosse e, sobbalzando, si sollevò mettendosi seduta. I vivaci occhi color rubino scrutarono con attenzione la porta della camera e la bambina tese l’orecchio per cogliere qualsiasi ulteriore suono proveniente dall’esterno.
Ecco un altro rumore. Era un suono di passi lontani, passi che si stavano avvicinando.
La bambina sussultò di nuovo poi guardò Belle, come se volesse chiederle se anche lei aveva udito qualcosa. Ma non disse niente. Soltanto quando ormai i passi erano vicini si rivolse alla bambola con aria di cospirazione:
«Arriva qualcuno, meglio spegnere qui!»
Dopo aver pronunciato queste poche sommesse parole si protese verso il comodino, fece scorrere la piccola mano a pochi centimetri dalla fiamma e, inspiegabilmente, la stanza fu nuovamente immersa nel buio.
Una piccola luce si accese, una fiammella scaturita da chissà dove nell’oscurità.
Shailin accostò la danzante fiamma a una candela quasi consumata che si trovava sul comodino accanto al suo letto e lo stoppino prese subito fuoco, illuminando quell’angolo della stanza di una luce soffusa e dorata. Tornò quindi a letto, passi leggeri che sfioravano il terreno i suoi, passi da bambina. Con un saltello vi si sistemò sopra, incrociando le gambe e portandole unite al petto per poi circondarle con entrambe le braccia mentre proseguiva nel proprio discorso,intenta:
«Sai Belle, ci sono volte in cui mi sembra di stare in mezzo a tante persone, ma forse parlo una lingua diversa da loro. Perché io parlo e nessuno mi capisce. Non lo so come mai.» Shailin si soffermò un momento, forse per riflettere su ciò che, evidentemente, le capitava spesso. Il visetto assunse una strana, solenne espressione, eppure i suoi occhi color rubino erano profondamente tristi. «Perché non vogliono giocare con me? Sono brutta, Belle? Lo so che è per questo! Hanno paura di me perché sono brutta, gli altri bambini. E io sono sempre sola.»
Per un momento la sua voce parve incrinarsi, e tacque, mentre le labbra cominciarono a tremare come se fosse sull’orlo delle lacrime. Eppure Shailin non pianse questa volta. Dopo tutto, si disse, era una bambina forte, e se gli altri stupidi bambini non volevano giocare con lei a lei non importava. No, non le importava davvero! E poi lei aveva sempre Belle al suo fianco.
La bambina continuò a lottare contro le lacrime ancora per qualche momento in silenzio poi, riacquistato il controllo della propria voce disse con una disarmante semplicità:
«Perché tu mi vuoi bene, Belle, io ne sono sicura. È vero?»
Ma i suoi occhi lucidi non videro risposta alle proprie domande, nemmeno questa volta. Belle, la sua bambola preferita, giaceva sul letto accanto a lei con lo sguardo vacuo rivolto verso il soffitto.
Shailin non sapeva quanti anni prima le avevano regalato quella bambola, forse non le interessava neppure; la cosa importante per lei era che Belle la ascoltava sempre, e questo significava sicuramente che le voleva bene. La bambina si prendeva cura di lei come se fosse la cosa più importante che avesse, e non permetteva a nessun altro oltre a lei di toccarla; passava ore ed ore a parlare con Belle. Monologhi lunghissimi, quasi infiniti, ma per lei questo non aveva importanza, tanto non aveva nessun altro con cui parlare. Nemmeno i suoi genitori sembravano ascoltarla mai.
Quella notte senza rendersene conto, Shailin stava confidando a Belle tutta la sua tristezza. Belle era una delle poche che l’avesse mai vista piangere perché, per quanto fosse una bambina dal carattere piuttosto fragile, aveva una particolarissima forza di volontà, insolita per una ragazzina di cinque anni, e aveva deciso che nessuno avrebbe dovuto sapere che era triste. Tranne Belle, naturalmente.
Shailin sciolse la stretta delle braccia attorno alle gambe e si protese in avanti per prendere Belle, quindi si buttò all’indietro per distendersi sul letto, senza preoccuparsi di ricoprirsi con le lenzuola di seta. Tenendo stretta in un abbraccio la sua bambola, voltò la testa sul cuscino in modo da poter osservare la fiammella della candela che sobbalzava ad ogni suo respiro e per qualche istante si perse nella contemplazione di quella strana danza.
Poi un rumore proveniente dal corridoio la riscosse e, sobbalzando, si sollevò mettendosi seduta. I vivaci occhi color rubino scrutarono con attenzione la porta della camera e la bambina tese l’orecchio per cogliere qualsiasi ulteriore suono proveniente dall’esterno.
Ecco un altro rumore. Era un suono di passi lontani, passi che si stavano avvicinando.
La bambina sussultò di nuovo poi guardò Belle, come se volesse chiederle se anche lei aveva udito qualcosa. Ma non disse niente. Soltanto quando ormai i passi erano vicini si rivolse alla bambola con aria di cospirazione:
«Arriva qualcuno, meglio spegnere qui!»
Dopo aver pronunciato queste poche sommesse parole si protese verso il comodino, fece scorrere la piccola mano a pochi centimetri dalla fiamma e, inspiegabilmente, la stanza fu nuovamente immersa nel buio.
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